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martedì 23 aprile 2013

MARIA PIA DE VITO - Jazzista




Maria Pia, quando hai cominciato a studiare canto e quando hai capito che il canto sarebbe stata la tua vita?

Ho cominciato a cantare prima ancora di studiare: a scuola, dove mi mettevano sempre nel coro delle grandi.  A 14 anni fui invitata in un gruppo rock da un fidanzatino. Fu un’ esperienza che non decollò, perché i miei mi vietarono di continuare: provavamo in un palazzo pericolante dove abitava la nonna del bassista!  Finì quasi subito. A 15 anni feci i primi concerti, come chitarrista, con un altro gruppo di amici che facevano musica popolare.  Quasi subito però sono passata al ruolo di  cantante.. A 16 anni e mezzo mi hanno invitata in un altro gruppo, Il Tiglio.: è stata una delle esperienze più belle della mia vita.  Cantavo musica di tutto il mondo, soprattutto dell’ est europeo, ed è in questa occasione che ho imparato a misurarmi con i  ritmi dispari, con lingue  difficili, con strumenti inusuali.  Tutto questo mi ha aperto la mente.
 A 19 anni sono entrata in crisi: mi sentivo in gabbia perché cantavo solo cose scritte da altri.  Avevo il pianoforte a casa e lo suonavo, ma da autodidatta…  mi sono detta “devo fare qualche cosa per cambiare”. Mi è balenato alla mente un ricordo: Ella Fitzgerald che cantava in uno show di Frank Sinatra. Sono passata davanti ad un’ edicola e c’era una di quelle raccolte jazzistiche a lei dedicata. Dentro c’ era “Air Mail Special”.  Mi sono chiusa in casa e me la sono imparata in tre giorni. E ho subito cercato un pianista di Jazz.  A 19 anni ho deciso: io volevo fare il Jazz.  Nel frattempo durante un concerto mi aveva avvicinato un insegnante di canto.  “Devi studiare con me” mi ha detto: e allora ho cominciato a studiare sul serio il canto.  Certo era uno studio che passava solo per la tecnica, per Mozart,e poco più,  perché io di altro non volevo sentir parlare: ma è stato il jazz a farmi dire “ io voglio fare questo nella vita”.  

E  il primo concerto di Jazz quando lo hai fatto?

Credo a 21 anni, intendo dire da leader e non come ospite.  

Il tuo strumento è la voce.  Sembra banale dirlo ma nel tuo caso definirti “cantante” appare riduttivo, poiché tu sperimenti ogni tipo di interazione, ogni tipo di sonorità, ogni tipo di influenza musicale con la tua voce. Quanto ti senti strumentista quanto cantante?  
E’ buffo:  quando ero più piccola  amici e musicisti mi  facevano notare che io alla domanda su dove avessi il prossimo concerto rispondevo: “vado a suonare a ...” non vado a "cantare a…". In realtà  ho passato sempre tanto tempo ad occuparmi del pianoforte quanto della voce: cantando il jazz mi è subito parso evidente che non poteva essere una questione solo di “avere orecchio”.  Per questo ho immediatamente cominciato a studiare armonia e studiare il piano, solo sostituendo Bach o gli esercizi tecnici rubati alla classica con i libri di piano Jazz , di Monk , magari. In realtà  non mi sento veramente “solo” una cantante.

Questo si percepisce quando ti si ascolta: sei una musicista.  Dunque Maria Pia, il canto è non è solo istinto, occorre studiare, è così? 

Non è affatto solo istinto! Certo se tu hai talento e istinto quello è il faro, ciò che ti guida verso un qualcosa che diventi sempre più bello:  noi cantanti dobbiamo essere  innamorati della nostra voce.  Ma per me la sola cura della voce era insopportabile.  E’ per questo che ho mollato l’ idea di prendere un diploma di canto.  Dedicarmi solo a quello mi dava fastidio, mi dava un senso di prigionia: per me se vuoi fare il cantante (non importa se di jazz o no) e vuoi avere un'identità forte  devi essere musicista. La sola voce non basta. Nel jazz l’ istinto è fondamentale: ma deve essere continuamente nutrito.  Ovvero, ciò che studi ed apprendi e che riguarda la musica nutre l’ inconscio. Così come  naturalmente lo nutre la  tecnica vocale, che non deve mai apparire come valore a sé da sbandierare. Deve diventare invisibile.

Perché spesso i musicisti sono molto critici con le cantanti? E’ vero che molte di loro non sono all’ altezza proprio dal punto di vista del linguaggio musicale, della “grammatica”? 
E' una vita che io mi scontro con questo che spesso si rivela un pregiudizio.  Mi ricordo che nel periodo in cui facevo la spola  con New York, quando c'era una Jam Session si segnava il proprio nome su una lista… na volta al Visiones il mio nome lo saltarono a piè pari:  perché ero cantante e per di più  italiana… e allora saltai sul palco e acchiappai il microfono come un uccello di rapina! Oppure mi chiedevano “ Ah bene,una cantante! che ballad canti? “ A quel punto io comunicavo il titolo di un brano bebop e lo staccavo a tremila all’ ora, per dimostrare che ci sapevo fare. Ma così  Era tutto poi troppo muscolare e competitivo e , alla fine, noioso.  
Questa fama "negativa " dei cantanti era  giustificata ( e in qualche caso lo è ancora oggi ) dal fatto stesso che spesso ci si aspettava dalla cantante di jazz,  che fosse sexy e miagolasse delle  torch songs.  I tempi  in questo senso sono cambiati: oggi c’è più preparazione, forse anche grazie al fatto che quelli della mia generazione hanno cominciato ad insegnare in conservatorio!  C’ è stato uno scatto in avanti, i cantanti di oggi sono molto più colti.  Prima era diverso, e questo anche può essere stato il motivo del pregiudizio: molti, occupandosi solo della loro voce, erano completamente dipendenti  dal musicista per qualsiasi cosa: la tonalità, il brano, il ritmo l’ arrangiamento.  Diciamo che c’è stata una grande massa  di “capre ben cantanti” !!! Nel mondo, non solo in Italia! Un pianista per poter suonare un brano con una band ha bisogno di 10 anni di studio. Un cantante con una bella voce e un po’ d’ orecchio lo fa il giorno dopo . Io stessa a 21 anni il giorno del mio primo  concerto non ero quella che sono oggi.
A questo aggiungi che  c’è tanta gente che ama il Jazz solo come musica strumentale: “de gustibus non est disputandum” come si dice!  



Insomma i musicisti qualche volta hanno anche ragione , ma c’è il rischio di incancrenirsi su stereotipi…

Si, infatti, sono stereotipi, che, ripeto, hanno avuto ragione di essere, ma adesso sempre meno.  

Tu scrivi le tue canzoni e le arrangi. Ecco un altro motivo per definirti  “musicista”...

Ma è necessario, altrimenti dipendi da qualcun altro! Il tuo gusto lo sai tu, se vuoi arrivare e riuscire a dire  le cose come vuoi tu ti devi rimboccare le maniche: perché se no arriva qualcun altro che ti prepara una cosa preconfezionata che anche se perfetta potrebbe rivelarsi come un vestito che non ti sta bene: se è del la taglia sbagliata, stai scomodo.  

Certo che così  tratta di lavorare.. tanto!

Si, si, si.  
Canti in numerosi contesti, molto differenti tra loro, e così vorrei che parlassimo di come cambia la vocalità, come usi  lo strumento voce a seconda del tipo di interazione musicale. Sei pronta? 

Pronta!

Ad esempio, cosa accade quando canti in duo con Huw Warren, pianista inglese con cui hai una proficua collaborazione da anni? Come ti tari sul pianoforte? 
Guarda, il tempo e l’ esperienza mi sono serviti a tararmi più che altro su me stessa.  Sono riuscita ad arrivare al suono che mi interessa, all’ elasticità e la fluidità che mi interessano.   Nell’ improvvisazione sono tante le cose di cui tenere conto.  Nel caso del pianoforte, che, come ti ho detto, è mio secondo strumento, ti dico che ho un vero amore per il piano, e ho avuto la fortuna di bellissimi incontri con pianisti meravigliosi: Rita Marcotulli, John Taylor, Danilo Rea, Enrico  Pieranunzi.  Huw Warren musicalmente è il mio compagno ideale. 

Su Myspace vi siete incontrati!
Si si la sai la storia no? 

Si bella la storia !
E’ girando su Myspace che mi sono imbattuta nei suoi brani: sono quasi svenuta dalla bellezza che vi trovavo… mi dicevo, guarda, pezzi con i ritmi dispari, come quelli che ho cantato tanto io…  e poi il Brasile.. e poi quel lirismo,  l’ amore per la melodia, intatto anche quando stai facendo il pezzo più free del mondo…  dunque questo suo eclettismo, che è un fatto di gusto, ci unisce. L’ amore per questi tipi di musica diversi mi è nato dalle esperienze che ho avuto, non perché io sia una specie di “topo di biblioteca”.  Proviene tutto dal  desiderio.  Ho avuto la fortuna di avere tante carte davanti e me le sono andate a spulciare tutte quante.  Con Huw Warren ancora una volta c’è stato un incontro: dunque non ti posso parlare tanto di calibrare la voce.  E’ l’ incontro, il dialogo, che conta.  Insieme andiamo ovunque, mi ritrovo a fare delle cose che in tutte le altre situazioni non faccio, perché è la musica che ci porta là..  E’ la musica che ci suona. E risuoniamo insieme, perché la cosa pazzesca è che sembriamo telepatici.  A volte durante i concerti  lo guardo fisso, altre non lo guardo proprio… ma lui mi intuisce.  E’ una cosa meravigliosa…

E’ il Jazz!

E’ sicuramente il Jazz, ed è il praticare il l'improvvisazione , che ci ha aiutati entrambi a raffinarci.  

Anche perché quando si improvvisa,  se non si ascolta finisce in una doppia o tripla esibizione parallela terrificante…
Esatto. il dialogo, l'ascolto è tutto. Nel mio caso l’ aver fatto tante cose significa sicuramente modularmi rispetto agli incontri, alle esperienze.  Ti faccio un esempio: quando canto in inglese o canto in napoletano mi dicono che ho una voce completamente diversa, poiché ogni lingua ha un suo portato sonoro. Hanno ragione a dirlo. Naturalmente il napoletano per me è roba ancestrale: quando ho ri-cominciato a cantare in napoletano nel 94, per il progetto  Nauplia con Rita Marcotulli, cantavo e dicevo a me stessa “oddio mi esce tutta un’ altra voce!” C’è stato , partendo da li, un lavoro di sintesi: cantare  (alcune) canzoni  napoletane, rileggerle per poterle fraseggiare in modo di andare al di là della tradizione napoletana: creare un ponte verso l’ improvvisazione, la contemporaneità, verso una musicalità di stampo europeo. 

Però devi conoscerla bene la tua voce, per padroneggiarla così..

Beh, non so se hai notato che io ho fatto una gavetta spaventosamente lunga!!!! Perché tanti anni miei di lavoro non sono documentati.  In realtà il mio primo disco da leader è uscito quando avevo 29 anni.  Il primo disco di Jazz l’ ho fatto a 27 anni, ma cantavo già dal 1980!  

Anni di studio….
Eh si… conta che i primi anni mi sono studiata tutto il be-bop , hardbop, e  tutti gli standard possibili e immaginabili. Poi ho avuto delle esperienze che mi hanno portato vicino al free, quando Damiani mi chiamò nell’ orchestra “New talent” : vinsi il concorso, poi  partecipai  con lui a dei progetti  free per i quali allora non ero ... pronta se vogliamo. Volevo esplorare ancora la forma, l'armonia tonale, e vi sono arrivata più tardi, insomma mi sono formata sul campo.  Quindi ho dalla mia la fortuna di aver lavorato come un ciuco!!
Ralph Towner mi definisce “late bloomer”. Quando lo incontrai e facemmo il disco e il primo tour io avevo già 37 anni e lui mi diceva “tu sei una late bloomer! Come mai non sei ancora famosissima???” Io gli rispondevo “sto fiorendo adesso”!!!! 

Maria Pia, invece cosa accade invece quando canti in duo con Ares Tavolazzi, al basso? Non è questione di cantare piano, è questione di cantare diversamente, è così? 
Si… ti misuri col silenzio. Ovvero ti misuri con uno spazio di frequenze che non sono riempite e quindi ti misuri  ancor di più col silenzio.  E’ uno splendore, hai un sacco di spazio , c’è la possibilità di fare ancora più colori.  

Quindi le dinamiche che assumono ancora più importanza, i particolari… 

Assolutamente!





Il che è diverso da cantare con una big band, lì serve un’ altra cosa ancora…

Si, si, naturalmente. Con gli anni ho capito una cosa importante: che la capacità più grande è quella di mantenere la tua misura nonostante tutto.  E allora faccio l’ esempio partendo dal cantare con una big band: quando mi capitava ed ero più piccola impazzivo, mi squartavo quasi le corde vocali.. e invece non era il modo giusto.  Ho combattuto ad armi pari con il mio temperamento. E ho fatto una cosa saggia: se trovi la tua misura rimani in una dimensione “sana” della voce.  Nel senso che la tua espressione è rivolta al pubblico ma con l’ intenzione di dire esattamente quello che vuoi dire con il suono che vuoi tu! Non vieni rapita in senso negativo. Ne parlo sempre durante i seminari , quando insegno : quando senti dire  “Bisogna dare tutto sul palco” non crederci!!  Ma quale dare tutto! Poi che rimane di te? Non devi dare tutto ma  il tuo meglio, ciò che  ti serve ad esprimere ciò che hai intenzione di dire.  Se ti consegni come un pacco postale in mano al pubblico sei finito. Non avrai più niente da offrire, se non ripetizione.  

Oltretutto nel Jazz non bisogna gareggiare sul palco, con gli altri musicisti, no?

Molti degli anni non documentati della mia vita musicali sono stati anni cui io gareggiavo eccome, tantissimo: mi sentivo in competizione con tutti gli strumenti del mondo, con il sassofono, con la tromba… volevo improvvisare più veloce di loro, più forte di loro,  e infatti mi stavo quasi uccidendo la voce.   Quella fase muscolare e di sgolate  è avvenuta prima che mi arrivasse un’ attenzione più vasta alla musica.  

Quindi tu adesso neanche con una big band sei muscolare...
Adesso no.  Fino a qualche anno fa si! Sono una persona molto emotiva.  Ho avuto le mie esagerazioni, ho imparato la mia misura col tempo,meglio tardi che mai!  


Cosa significa interagire con uno strumento a fiato, duettandovi? Si cercano punti in comune o si gioca sulla differenza timbrica, e quanto è difficile ognuna delle due possibilità?
Io non ci penso, io penso al dialogo, io sono in dialogo con Huw Warren al piano ed è una cosa.  Quando sono in dialogo con un sax è un’ altra cosa, diciamo che quello che cerco di fare oggi è di stare nel dialogo e di “essere” . “Essere”, in modo da portare anche il mio interlocutore a dire “sto duettando con una voce e non con una tromba” .  E’ una questione di volume e di estensione e di certo non è una sfida.  
Non mi prefiguro mai la timbrica che userò: lascio che venga naturalmente. Tanto, maggiore è la capacità di stare dentro la musica più è spontaneo ciò che viene fuori.  Attenzione: ovviamente è una spontaneità mediata dal fatto che ti sei ben nutrito prima.  SI ritorna al discorso dello studio.  La capacità di essere spontanei ha alle spalle un lavoro ed uno studio pazzeschi.

Quanto influisce l’ arrangiamento sull’ emissione vocale? Intendo non tanto quello scritto da te e per te, quanto quando lavori sugli arrangiamenti di un altro musicista? Ti lega, ti emoziona, cosa accade?

Ma sai…  la musica ti chiede.  La musica ti chiede sempre  qualche cosa.  

Tu te li studi prima gli arrangiamenti o vai allo sbaraglio, come si dice.. a orecchio? 
No no no.  Io  li studio sempre! Se vado a fare una cosa con un arrangiamento particolare me lo guardo, capisco bene ciò che è scritto:  perché le sonorità, il modo in cui sono messi i voicing ti richiede una riflessione conseguente. Se sei una voce dell’ accordo o se si prevede che tu sia solista devi sapere esattamente cosa e in che modo accade.  E devi anche parlare a lungo con l’ arrangiatore per sapere cosa si aspetta da te. 

Ovvero c’è una fase preliminare importante…

Assolutamente, fondamentale. Altrimenti  il cantante è isolato. Una cosa terribile. 

Però non siete in tante a fare questo in maniera così precisa… 
Non so dirtelo.  Io credo che le cantanti che in Italia in questo momento sono emerse o stanno emergendo avendo importanti successi anche all’ estero siano persone molto intelligenti da questo punto di vista. Vedo una grande consapevolezza e questo è molto bello:  il canto jazz in Italia è cresciuto in una maniera pazzesca.  


Usi anche gli effetti. La tua voce reiterata, o alterata. Cerchi la polifonia, cerchi un’ atmosfera, cerchi un suono esteticamente bello in se? O una sperimentazione che non sai dove ti porterà? 
Una sperimentazione, nel senso che per me l’ elettronica è una moltiplicazione della possibilità di improvvisazione e di composizione.  A parte rari casi in cui ho  una "griglia", molto spesso quando inizio l’ improvvisazione con le macchine non so che brano farò, se mi riferirò ad un brano conosciuto... Ad un certo momento mi esce fuori un impasto su un accordo minore o su una modulazione e mi viene in mente un pezzo: e quindi è per me una parte di improvvisazione molto importante e che mi diverte molto.  
Quanto ti senti jazzista e quanto cantante?   

Io mi sento jazzista sempre. Ho scelto il Jazz come una traccia di libertà e di invenzione. Per me è un metodo, per me è una filosofia. Ripenso sempre a quando venne a fare un seminario a Nuoro Steve Lacy che disse ”La musica è roba. Se tu questa roba la conosci bene come conosci il palmo della tua mano o tutti gli angoli della stanza dove dormi tutte le notti allora puoi fare il jazz”.  Puoi improvvisarci, no? Vuol dire che la musica la prendi, la scarnifichi,  le fai prendere una forma altra...  facendo questo ho potuto reincontrare la lingua napoletana, reincontrare il Brasile, reincontrare il barocco,  reincontrare Pergolesi e l’ elettronica…  e mischiare tutto. Per me fa parte tutto della stessa pratica che è una pratica di invenzione e di composizione.  Noi improvvisatori siamo “ instant composers” e questa è la cosa più importante di tutte: compositori all’ impronta, che non vuol dire incartarsi sull’ assolo, il che sarebbe assai limitante. Con questo metodo qualsiasi materiale musicale ti appassioni lo puoi prendere e in maniera personale plasmarlo  per dire esattamente ciò che provi.  Ti faccio un altro esempio: io canto Guinga.  Le sue canzoni le traduco in napoletano, le fraseggio come sento. Lo posso fare proprio perché ho il Jazz come metodo! Guinga dice che sono così perché sono "compositora". Credo sia così! Io mi sento prima "compositora" e poetessa che cantante. La parola è importantissima, nelle mie composizioni le parole fanno parte della musica in maniera stretta. Per me è un lavoro poetico fondamentale, che mi sta dando tra l'altro bellissime soddisfazioni, mettendomi in un contatto stretto di collaborazione con meravigliosi artisti come Chico Buarque, Jose Miguel Wiesnick, il poeta Gabriele Frasca, per menzionarne alcuni! Troppo spesso, nel Jazz, questo aspetto non viene considerato. Non mi ricordo chi fu, se Ben Webster o Dexter Gordon, che mentre  suonava si fermò improvvisamente. Quando gli chiesero “Perché ti sei fermato? “lui rispose: “Perché non ricordavo più le parole della canzone”. 

Ed ora le domande che rivolgo a tutte alla fine dell’ intervista.  
Trovi che nel mondo del Jazz le donne siano favorite ? 


Nella musica in se', non trovo differenza di genere. Nel mondo del lavoro connesso alla musica, trovo che spesso le donne NON siano favorite, anzi. Beninteso, questo è vero in molte parti del mondo. Ma qui, per tradizione culturale, va meglio quando si può contare su uomo potente nelle vicinanze. Quindi, in ogni caso, come esseri umani le donne NON sono favorite. Magari raccomandate, ma non favorite. In ogni caso si arriva indebolite all'approdo.
Ma questo vale un po' per tutti gli artisti, maschi o femmine, non credi?


Quale è la cosa più difficile del tuo lavoro?

Ecco, mi ricollego  alla risposta di prima: siamo in un paese che non riesce più ad avere cura del proprio patrimonio culturale, e quindi degli artisti in generale, che non li ritiene NECESSARI, se non per quanto denaro riescono a produrre, che taglia i fondi per la scuola, la ricerca e la cultura.  Quindi, la cosa più difficile è dover combattere per ottenere quello che in altri paesi è ovvio.  
La più semplice?

Suonare, comporre, cantare, studiare.


La più spiacevole? 
Il mobbing strisciante, la diffusa sfiducia verso le cantanti, che per default sembra non possano essere compositrici, arrangiatrici, leader indipendenti.
In trenta anni e più anni di musica, sono innumerevoli le volte che ho dovuto spiegare: sì, questo brano l'ho scritto io, musica e parole. No, quell'arrangiamento non lo ha scritto "X" (uomo), l'ho scritto io. Il progetto? Nno, non l'ha immaginato "Y"(uomo), è un'idea mia. Se mi posso esprimere in latino, è una vera palla.
La più piacevole? 


Cantare, suonare, comporre, creare,accompagnata dalla stima dei musicisti, e dall'amore di chi sceglie di ascoltarci.







3 commenti:

  1. Era da un pò che non passavo di qui, bellissimo post, mette davvero in chiara luce la densità umana e la artistica della de Vito; per me è forse la voce più emozionante del panorama musicale che amiamo seguire, in tutti i contesti che esplora.
    Sulla collaborazione con Huw Warren ho una registrazione live alla Cappella Paolina, non è un disco ufficiale, magari ne faccio un post, ispirato da questa bella intervista...
    Alla prossima

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  2. mi è sfuggito un "la" superfluo ;-)

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  3. Caro Alfonso, grazie! E' una bella intervista anche per noi, ne siamo molto contente.
    Passa, passa di nuovo perchè noi spessissimo pubblichiamo. Aspettiamo di leggere il tuo post! A presto, e W il Jazz
    D&D

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