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lunedì 12 maggio 2014

Claudio Filippini Trio a Braschi in Jazz

Filippini, il Pianoforte, il Trio, il Jazz.

Braschi in Jazz
Roma, Palazzo Braschi, Domenica 12 maggio
ore 18
Claudio Filippini Trio

Claudio Filippini, pianoforte
Luca Bulgarelli, contrabbasso
Marcello Di Leonardo, batteria



Articolo di Daniela Floris, foto di repertorio di Daniela CrevenaFoto del concerto scattata con Iphone, NON Crevena







Claudio Filippini suona benissimo il pianoforte. Ogni volta che sono andata ad ascoltarlo ho pensato semplicemente questo, e fino ad oggi è andata sempre così.  Cosa rende così intenso e piacevole il suo modo di suonare? Prima di tutto Claudio Filippini è un interprete, oltre che uno strumentista, e la differenza tra un bravissimo strumentista e un musicista è l’ espressività. Quando suona, Filippini parla, racconta. Ogni pianista che sia interprete ha un suo modo di essere espressivo: Filippini lo è essenzialmente amando  esporre i temi in maniera lirica, evidenziandoli bene dalla parte armonica. Ha un racconto, uno stato d’ animo o un viaggio da descrivere: le parole le esprime con la sua mano destra, la colonna sonora è l’ armonizzazione della mano sinistra.  Distinguibili, in maniera cristallina, ma mai slegate, piuttosto necessarie l’una all’ altra: così come in un quadro  vi sono i tratti, e vi sono i colori.



E’ sempre poetico nel concludere i fraseggi, senza scatti, morbidamente, espandendo riccioli di note, senza però essere mai lezioso. Le sue intro sono sempre curate, hanno sempre una funzione di prologo e disegnano l’atmosfera del pezzo. Ogni brano ha un suo sviluppo armonico elegante eppure emotivamente intenso. In ogni composizione o rivisitazione di brani famosi trapela un retroterra che è fatto di ascolti che non può non aver amato: è il Jazz, è il Blues, il rock, ma è anche la musica classica, tutta, anche quella dei primi del novecento o della fine dell’ottocento. Le citazioni sono incastonate ad arte in arrangiamenti inusuali, non sono mai sterili riproduzioni, bensì qualcosa di emotivamente vivido, suonato in maniera quasi affettuosa e sempre intensa.  E tutto questo non è esibito ma istintivamente mostrato, ed è qualcosa di intimamente assimilato e reso nuovo, che diventa linguaggio oramai personalissimo e dunque originale. 
Si ascoltano brani energici e inusuali per arrangiamento o timing, o pezzi introspettivi e dolci, o contagiosi ritmi latin. Filippini improvvisa avendo sempre una tensione verso un fraseggio compiuto.
Abbiamo ascoltato Filippini, in trio, alla rassegna Braschi in Jazz, in uno dei palazzi storici più belli di Roma, appunto Palazzo Braschi: occasione unica per ascoltare musica attraversando sale incredibili, in pomeriggi domenicali spesso inutilmente pigri e indolenti. Era un’occasione da non farsi sfuggire. Cosa altro aggiungere a ciò che ho appena detto? Che si è ascoltato un Jazz bellissimo.


Con Filippini due musicisti che da ben dieci anni condividono con lui la musica : e questo legame si svela da subito, perché Luca Bulgarelli al contrabbasso e Marcello di Leonardo alla batteria sono protagonisti e non certo gregari o “accompagnatori”. L’uno con un suono pieno e necessario al trio, così come sono necessari i suoi disegni armonico melodici, anche nei soli, che sono vere e proprie nuove “canzoni”, esposte con musicalità appassionata. L’altro che sa bene come scegliere tra i suoni gravi e il tintinnare dei ride, in pezzi così raffinati e cangianti. Dà una sua impronta personalissima, sa decidere il groove giusto, spesso decisivo di alcuni brani originali molto connotati, quali ad esempio “Flyng Horses”: l’ esplosione contagiosa dei suoi tamburi e la tensione secca sul rullante, dopo l’ intermezzo lirico del pianoforte, decidono il sapore del pezzo.

Cito un brano per tutti, proprio in virtù del fatto che è un brano noto in tutto il globo terracqueo e cioè “What a Wonderful World”: Filppini, Bulgarelli e Di Leonardo riescono a sfrondarne la potenziale melensaggine e a salvarne la tenerezza e quello stupore quasi infantile: una perla in un mare di interpretazioni stucchevoli e che hai perdonato solamente a Louis Armstrong. Il tema emerge dolce e accennato. E allora dici a te stessa, ma perché io che amo il jazz dovrei chiedere meno di questo? Ma anche, cosa dovrei chiedere di più?





 

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